Oscurare la Cultura

Sergio Bertelli

Potrà sembrare strano che, dovendo introdurre una mostra che gravita sull’Index librorum prohibitorum, io cominci parlando della doppia versione della morte di Niccolò Machiavelli (1527). Ma un nesso esiste, eccome, e lo si constaterà se mi si continuerà a leggere.
Una prima versione della dipartita del celebre fiorentino è ricalcata sulla leggenda della morte di un letterato dell’antichità, il poeta Lucrezio Caro, così com’era stata narrata dal Chronicon di San Girolamo («a poculo amatorio in furorem versus», cioè indotto alla pazzia da un filtro d’amore).
Fu l’umanista Paolo Giovio a mettere in circolazione il racconto delle ultime ore del Machiavelli, che sarebbe spirato per avvelenamento dopo aver preso «una medicina di sua fantasia, mediante la quale, scherzando egli pazzamente con la Divinità, si condusse alla morte». L’accenno a questo «pazzo» dialogo si riferisce al sogno (probabilmente un’allucinazione) riportato da un altro letterato, Giovan Battista Busini, in una lettera a Benedetto Varchi, dove un Machiavelli agonizzante, a colloquio con le anime di beati, disputa animatamente di politica. Fra quelli c’erano tutti i maggiori filosofi dell’antichità: Platone, Plutarco, Tacito… Alla domanda «con chi volesse stare», Machiavelli avrebbe risposto senza esitare che, piuttosto che parteggiare per qualcuno, avrebbe di gran lunga preferito «andarsene all’inferno coi nobili spiriti a ragionare di Stato».

Irrisor et atheos (‘ribaldo e ateo’)? Machiavelli all’inferno?
A queste ricostruzioni fantasiose degli ultimi attimi della vita del nonno replicava il nipote Giuliano de’ Ricci, dando una versione del tutto diversa: «Poiché io veggo la ricetta di queste pillole da lui celebrate, mi vo immaginando che in quelli tempi si potesse spargere qualche falso romore di questa cosa, perché in verità egli morì cristianamente nel suo letto, visitato da tutti gli amici, in braccio della moglie et de’ figliuoli». Il terreno era adesso propizio per introdurre al capezzale di Machiavelli certo fra’ Matteo, dal quale il morente «lasciassi confessare le sue peccata».

Questi racconti apocrifi sulla morte di Machiavelli non nascevano per caso, ma rispecchiavano il tentativo di cristianizzare il filosofo fiorentino, consentendo in tal modo la pubblicazione dei suoi scritti, aggirando i divieti della censura ecclesiastica. D’altra parte, un tentativo in questo senso era già stato compiuto mentre Machiavelli era ancora in vita.

Nel 1523, infatti, Clemente VII aveva commissionato ad Agostino Nifo la revisione, in chiave cattolica, del De principatibus (il De regnandi peritia), senza che l’autore avesse osato protestare, come pure aveva fatto a suo tempo, per l’edizione pirata del suo primo Decemnale. Erano le prime avvisaglie dell’ostracismo da parte della Chiesa nei confronti della sua opera.

Quando, nel 1559, fu istituito da Paolo IV l’Index librorum prohibitorum, il corpus dell’opera machiavelliana era ormai completato. Fin dal 1531, i famosi editori Antonio Blado e Bernardo Giunta si erano assicurati, in concorrenza fra loro, i Discorsi e, di nuovo, l’anno seguente, le Istorie fiorentine. Proprio nel ’59 uscirono i Canti carnascialeschi. Ma già quel famigerato Index, nel quale le opere del Machiavelli erano ripetutamente e interamente bandite – condannate sia da Paolo IV, sia, successivamente, dai padri dal Concilio di Trento, nel 1564 – sembrò un’assurdità. Tant’è che Pio IV emanò in proposito una Moderatio, introducendo a margine del divieto le clausole donec corrigatur (‘fino a quando non fosse stato corretto’), dopodiché il testo avrebbe potuto circolare liberamente. La strada sembrava quindi aperta per una rassettatura complessiva del corpus machiavelliano. Fra’ Matteo giungeva a proposito per ricondurre in grembo a Madre Chiesa il Segretario fiorentino. Alla purgazione degli scritti, fortemente sostenuta da Cosimo de’ Medici, si accinsero i nipoti, il canonico Niccolò e il nipote Giuliano de’ Ricci, i quali ebbero a modello le correzioni apportate ai testi del Boccaccio. In questo erano confortati anche da una lettera del vescovo Eustachio Locatelli, confessore di Pio V, che il 22 febbraio 1572 scriveva al letterato Lodovico Martelli, dicendosi rasserenato nel constatare come il Segretario fiorentino non fosse «in memoria d’huomini in cattivo concetto» e che non ci fosse a Roma «cosa alcuna contro di lui […] acciò il mondo habbi le fatiche di questo valent’huomo». Un pio auspicio, presto disatteso.

Fin dal 1542, con la bolla Licet ab initio, Paolo III aveva stabilito il controllo sulla stampa e sulla sua diffusione. Due anni dopo, con sollecitudine, l’Università di Parigi aveva stilato una prima lista di libri dannati e nel 1559 Paolo IV aveva emanato il primo vero e proprio Index, contenente un migliaio di titoli, tra i quali Abelardo ed Erasmo. Ma quel che più preoccupava era la diffusione dei testi di Lutero e di Calvino, il proselitismo ereticale, la controversistica, le traduzioni non autorizzate dei sacri testi, i libri di negromanzia, tutto materiale trasportato clandestinamente, in forma sempre più capillare, nelle bisacce dei mercanti o nascosto nelle balle di lana provenienti dall’Europa del Nord. Si calcola che, se a metà Quattrocento si custodivano in Europa tra i due e i tremila codici manoscritti, dopo l’invenzione della stampa circolassero oltre dieci milioni di incunaboli (l’elenco dei titoli si trova nel catalogo Hain-Copinger), con tirature di poco inferiori alle cinquecento copie, e che nel secolo successivo venissero stampati fra i tre e i quattrocento milioni di titoli, con tirature medie di duecento-cinquecento copie.

Si capisce quale compito immane fosse quello del controllo. Nel 1571 veniva così istituita la Congregazione dell’Indice, che nel 1596 avrebbe provveduto alla redazione di un nuovo elenco di libri proibiti, al tempo del pontificato di Clemente VIII. Fu così che, del tutto involontariamente, la Chiesa organizzò e mise nero su bianco una dettagliata bibliografia del pensiero religioso, letterario e filosofico, una sorta di immenso catalogo sinottico della cultura del tempo che includeva opere tra le più varie, raccolte e registrate nell’Indice anche se provenienti da campi del sapere lontani da quelli della teologia.
Altro prezioso strumento di informazione, dal punto di vista della ricostruzione del pensiero della prima età moderna e del Barocco, si dimostrò l’inchiesta, promossa tra il 1599 e il 1600, sulla formazione delle biblioteche conventuali. Furono coinvolti 1.382 conventi e 8.195 biblioteche individuali (eccettuati i Domenicani e i Gesuiti, che non risposero al censimento). L’ambito dell’intervento censorio era amplissimo: le regole tridentine, ripetutamente rinnovate, stabilivano l’esclusione dal commercio librario delle traduzioni in volgare dei testi sacri (Regula IV); ovviamente tutta la produzione a stampa protestante (Regula V); i testi controversistici «nostri temporis disserentes» (Regula VI); i libri «qui res lascivas, seu obscenas ex professo tractant» (Regula VII); i libri di geomanzia, idromanzia, chiromanzia e i trattati di venefici (Regula IX); infine, l’ultima regola stabiliva che non si potesse stampare alcuna opera senza il visto preventivo del Maestro dei Sacri Palazzi.
Ma l’indicazione «donec corrigatur» – quella che aveva permesso una certa circolazione del pensiero machiavelliano cristianizzato – si rivelò un massacro per il bibliofilo. Incunaboli, cinquecentine e testi a stampa secenteschi e settecenteschi vennero sistematicamente massacrati, sforbiciati, interi paragrafi coperti da strisce per impedire la letture dei passi incriminati.

Se l’Indice, più volte aggiornato e promulgato (l’ultima stesura sarebbe stata quella del 1948!), si dimostra un’eccellente bibliografia dei suoi tempi, si resta senza dubbio perplessi di fronte all’inclusione di alcuni autori che pure manifestano una precisa linea di condotta, decisamente reazionaria. Fu un oscuramento perverso dell’intera cultura europea, che sottopose gli autori a penose autocensure. Basterebbe ricordare i casi del Decameron, edulcorato da Vincenzo Borghini (1573); gli Hecatommithi di Giambattista Giraldi Cinzio (1574); la Vita nova di Dante (1576); Il Cortegiano di Baldassar Castiglione (1584). Ma più eclatante e drammatica fu la vicenda di Torquato Tasso, umiliatosi al punto da sottoporre preventivamente ai censori la sua Gerusalemme liberata!
Una pesante cappa di piombo calò sulla cultura dell’Europa cattolica, stravolgendo persino gli indirizzi della lettura, nonché le scelte della produzione libraria, la quale si orientò verso il settore dei libri devozionali. La grande editoria ripiegò sulla storia sacra, come l’impresa degli Annales ecclesiastici del cardinale Cesare Baronio (1588-1607) o la Bibliotheca selecta de ratione studiorum del gesuita Antonio Possevino (1603).
L’oscurantismo dell’Indice impressiona ancora oggi. Passi la condanna dell’eresia, o dei testi negro-mantici, la messa all’Indice della traduzione della Bibbia di Giovanni Diodati (1576-1649), uno dei tanti lucchesi riparati a Ginevra e passati al calvinismo. Ma l’Indice clementino aggravò i precedenti elenchi per l’intolleranza del cardinale Giulio Antonio Santoro, posto a capo del Sant’Uffizio e che con l’Observatio volle riproporre condanne che erano state revocate o mitigate. Ai 1.168 libri e autori del 1564 ne vennero aggiunti altri 1.543. Santoro non risparmiò testi medici e giuridici, oltre alle tante opere letterarie che giudicò sconvenienti.
L’opera di epurazione proseguì negli anni successivi. Eppure, al di là di tanto rigore, quale riprovazione, dal punto di vista religioso, poteva aver spinto alla condanna di un’opera eccelsa come quella di René Descartes (decreto del 20 dicembre 1663), sia pure con l’attenuante del «donec corrigatur»? Che cosa aveva indotto Clemente XII, nel giugno 1734, a inserire la traduzione francese di Pierre Coste dell’Essai philosophique concernant l’entendement humain di Locke, condanna ribadita nel 1761, inserendone la traduzione italiana e l’intera sua opera nell’elenco dei libri proibiti, nel settembre 1827? E quali considerazioni avevano portato, a distanza di quasi mezzo secolo dalla sua apparizione, a includere nell’Indice la Critica della ragion pura di Immanuel Kant? Più che ovvio ritrovare in quegli elenchi la bibbia del libertinage érudit, cioè il Dictionnaire historique di Pierre Bayle, o l’Istoria civile del Regno di Napoli di Pietro Giannone (condanna del primo luglio 1723, ossia con i quattro tomi ancora freschi di stampa).

Ma come giustificare, per esempio, la condanna di Cesare Beccaria (febbraio 1766)? Procedendo negli anni, sembra comprensibile la condanna di William Roscoe, nel marzo 1825, per la franchezza con cui l’autore tratta la biografia di Leone X. Ma di nuovo sembra difficile accettare la messa all’Indice dell’Esprit des lois di Montesquieu (novembre 1751, cioè appena due anni dopo la pubblicazione, condanna estesa alla traduzione italiana), nonché delle sue Lettres persanes (maggio 1762).
Avanzando nel tempo, non si può dire che sulla Chiesa siano soffiati spiriti di maggiore moderazione. Tutt’altro. I fermenti di rinnovo che talvolta spingono dal basso, che sgorgano dalla periferia del mondo cattolico, hanno sempre spaventato le gerarchie romane. Le Paroles d’un croyant(1833) del sacerdote Félicité-Robert de Lamennais, esponente del nuovo cattolicesimo liberale, furono considerate da Gregorio XVI «opus reprobatum et damnatum» (giugno 1834 e di nuovo luglio 1836). Quella stessa idea – e questo lo si comprende meglio – fu alla base dell’attacco della Curia romana al pamphlet Affaires de Rome(febbraio 1837). Quell’opera era, del resto, il preludio al movimento rinnovatore ‘modernista’; e in quel contesto toccò ad Antonio Fogazzaro, con i romanzi Il Santo (1905, decreto di aprile 1906) e Lelia(1910, decreto di maggio 1911), incorrere nei rigori dell’Inquisizione, sotto la cui scure cadde anche il sacerdote Romolo Murri, addirittura scomunicato per essersi fatto promotore di un movimento per la democratizzazione della Chiesa. Nemmeno uno dei suoi importanti scritti, a cominciare da Democrazia e cristianesimo (1906, decreto di luglio 1909) è stato risparmiato. Una sorte non dissimile sarebbe toccata anche a Ernesto Buonaiuti, che venne perfino privato della cattedra universitaria, con il Concordato fascista del ’29.
Non sembra un’enormità la messa all’Indice della Storia d’Europa nel secolo decimonono di Benedetto Croce (luglio 1932) e infine di tutta la sua opera (giugno 1934)? Non fu quello uno degli ultimi rigurgiti di oscurantismo? E, al contrario, che dire dell’assenza tra gli autori condannati di nomi quali il Marchese de Sade, Karl Marx e Adolf Hitler? Del resto, quale clima illiberale spirasse in quegli anni nefasti oltretevere lo prova un appunto dei Diari di Umberto Zanotti Bianco, laddove, alla data del 30 agosto 1943, registra l’opposizione del Vaticano allo scioglimento della fascista Accademia d’Italia, paventando la rinascita della galileiana Accademia dei Lincei.

La giornata del 10 maggio 1933 resterà una testimonianza perenne di come la lotta alla cultura abbia oltrepassato i confini dell’ortodossia religiosa. Una volta allestita la pira dei libri sulla Piazza dell’Opera, a Berlino, quella notte furono ventimila i volumi dati alle fiamme. Prima del rogo, nove giovani, come se pronunciassero un giuramento, scandirono ad alta voce parole purificatrici, e Marx, Freud, Heinrich Mann furono additati alla pubblica riprovazione e ludibrio.
Ma si ricordi che anche nelle biblioteche del mondo comunista, una specifica sezione denominata «Inferno» custodiva libri non ammessi alla lettura.
Nelle sue opere, Ileana Florescu ha sostituito l’acqua al fuoco, forse a voler sottolineare una restituzione, una rigenerazione del libro censurato, forse perché l’acqua è una terza lente, o meglio una lente d’ingrandimento che imprime nella nostra memoria titoli che ci parrebbero insospettabili. Ma quelle saette e fiammate di luce che lampeggiano e che trasformano il mare in un rogo o, al contrario, quei fondali tuonanti e fumosi, non sono un chiaro riferimento ai pericoli della censura e non fungono da ammonimento?
Proprio dall’Indice Florescu ha scelto autori come Machiavelli, Erasmo e Copernico, ma anche Giovanni Diodati e Jean de La Fontaine, John Locke e Jonathan Swift, Voltaire, Montesquieu e Beccaria, Hume e Kant, Larousse, Balzac e Stendhal, Hugo e Dumas, Fogazzaro, Bonaiuti e Croce. Nel Medioevo, di fronte ai sospetti di stregoneria, si ricorreva al giudizio di Dio; l’inquisito, una volta legato, veniva gettato in acqua: se annegava, era innocente (riabilitato post mortem!), se invece galleggiava, sarebbe stata la dimostrazione che il demonio lo sorreggeva e proteggeva. Sarebbe provocatorio domandare all’artista quali dei testi da lei gettati nelle acque di Sardegna o del Maine siano subito affondati, quali invece abbiano galleggiato. Copie salvate dal furore censorio, fortunatamente giunte fino a noi.
È questo il messaggio più profondo che sgorga da un gesto scaramantico (il libro gettato nell’acqua o nel fuoco): ci ricorda non solo quanto sia difficile la trasmissione del sapere, ma anche quanto sia vitale il diritto a comunicare. L’Indice romano sarebbe stato ufficialmente abolito solo nel 1966, ma il recente episodio della condanna di José Saramago per il suo Vangelo secondo Gesù Cristo da parte del clero portoghese evidenzia come una censura ecclesiastica permanga tuttora, pur senza ricorrere al fuoco o all’acqua.

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